Biografia Indro Montanelli, da wikipedia

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Rostislav666
view post Posted on 1/9/2009, 16:44




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Indro Montanelli (Fucecchio, 22 aprile 1909 – Milano, 22 luglio 2001) è stato un giornalista, scrittore e divulgatore storico italiano.

Biografia [modifica]

Origini [modifica]
Figlio di Maddalena Doddoli e Sestilio Montanelli, Indro nacque[1] nel palazzo di proprietà della famiglia della madre. A tale circostanza sono riferite alcune «leggende», la più famosa delle quali - raccontata dallo stesso Indro - narra che dopo un litigio (gli abitanti di Fucecchio erano divisi in «insuesi» e in «ingiuesi», cioè di sopra e di sotto; la madre era insuese e il padre ingiuese) la famiglia materna ottenne di far nascere il bambino nella propria zona collinare, mentre il padre scelse un nome adespota, estraneo alla famiglia materna e neppure presente nel calendario. Il nome Indro, scelto dal padre, infatti e' la mascolinizzazione del nome della divinità Indra induista, poi trasformato nel sopranome "Cilindro" dagli amici ed anche da alcuni avversari politici [2].[3] Passò l'infanzia nel paese natale, spesso ospite nella villa di Emilio Bassi, sindaco di Fucecchio per quasi un ventennio, nei primi anni del Novecento. A Emilio Bassi, che considerava come un «nonno adottivo», restò legato tanto da volere che a lui fosse cointitolata la Fondazione costituita nel 1987.[4] Il padre, preside di Liceo, fu trasferito prima a Lucca, poi a Nuoro presso il Liceo Classico "G.Asproni", dove il giovane Indro lo seguì. Ancora a causa degli spostamenti del padre, frequentò il liceo a Rieti.
Giovinezza [modifica]
« Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di scuola. E, detto fra noi, era ora. »
(Indro Montanelli, ringraziando Benito Mussolini ("Gran Babbo"), nel raccontare la sua esperienza di comandante di una banda di Ascari durante la guerra d'Etiopia.[5])
L'adesione al regime [modifica]
Montanelli si diplomò al Liceo di Rieti nel 1925 e in seguito si laureò in giurisprudenza a Firenze, un anno prima della durata normale dei corsi, con una tesi sulla riforma elettorale del fascismo in cui sosteneva che si trattava puramente di un'abolizione delle elezioni, ottenendo come valutazione centodieci e lode. Poté questo grazie ai professori antifascisti dell'ateneo[6]. Successivamente frequentò uno stage a Grenoble in scienze politiche e sociali. Debuttò su la rivista Frontespizio di Piero Bargellini, con un articolo su Byron e il cattolicesimo (luglio-agosto 1930). Fu attento lettore di altre riviste, specie de L'Italiano di Leo Longanesi (destinato, dal 1937, a diventare suo grande amico e, nel secondo dopoguerra, suo editore) e de Il Selvaggio di Mino Maccari: periodici, entrambi, che pur essendo fascisti furono fra i primi a fare "fronda", cioè a rompere con il coro conformista del regime. Ma fu altresì profondamente influenzato dalla lettura de La Voce (1909-1914) di Giuseppe Prezzolini (destinato, nel secondo dopoguerra, a essere tra i migliori suoi amici). Nel 1932 collaborò al periodico fiorentino l'Universale di Berto Ricci, con una diffusione di circa millecinquecento copie.
Esordì come giornalista di cronaca nera nel 1934 a Parigi, al Paris-Soir, collaborando contemporaneamente al quotidiano italo-francese diretto da Italo Sulliotti L'Italie Nouvelle. Fu poi mandato come corrispondente in Norvegia, da lì in Canada e poi assunto alla United Press negli Stati Uniti, continuando anche nella collaborazione con Paris-Soir. In questo periodo intervistò il magnate Henry Ford, che descrisse in maniera molto originale. Si propose come inviato in Etiopia, ma l'agenzia non acconsentì, e così volle partire volontario verso l'Abissinia, preso dagli ideali fascisti, come comandante di un battaglione di Ascari.
Durante la campagna militare, Montanelli sposò un'eritrea di 12 anni, versando al padre la convenuta cifra di 500 lire, secondo i costumi locali. Questa prima moglie lo seguì per l'intera permanenza in Africa.[7]. L'usanza di sposare un "suddito coloniale", in Italia definita "madamato", venne proibita nell'aprile 1937, per evitare contatti tra italiani e africani; il provvedimento sarà seguito l'anno dopo dall'emanazione delle Leggi Razziali.
Della sua esperienza africana, scrisse un pezzo per Civiltà Fascista intitolato "Dentro la guerra":
« Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà. »
(Indro Montanelli, gennaio 1936, "Civiltà Fascista".[8])
Il passaggio all'antifascismo [modifica]
Tornato in Italia, ripartì per la guerra civile spagnola, corrispondente sia per il quotidiano romano Messaggero sia per il settimanale Omnibus di Longanesi. In Spagna, le sue posizioni contro il regime si radicalizzarono. Pubblicò un articolo critico sulla battaglia di Santander in cui la definì una passeggiata, con unico nemico il caldo. Mentre la sua simpatia per gli anarchici spagnoli lo portò ad aiutare uno di loro, accompagnandolo fuori frontiera. Il gesto venne ricompensato da "El Campesino"[9], capo anarchico della 46° divisione nella Guerra di Spagna, con il dono di una tessera della Federazione anarchica, di cui Montanelli si sarebbe fregiato per tutta la vita.
Una volta rimpatriato, Il Minculpop lo cancellò dall'albo dei giornalisti per l'articolo sulla battaglia di Santander, considerato offensivo per l'onore delle forze armate. Montanelli inoltre venne sospeso dal Partito fascista.
Gli inizi al Corriere della Sera [modifica]
La presa di posizione contro il fascismo lo portò ai primi seri dissidi. Gli fu tolta la tessera del Partito, che poi nulla egli fece per riavere; così, per evitare il peggio, Giuseppe Bottai prima gli trovò in Estonia un lettorato di italiano nell'università di Tartu, poi lo fece nominare direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Tallinn, la capitale.
Ritornato in Italia, entrò nel 1938 al Corriere della Sera grazie anche all'interessamento di Ugo Ojetti, che credeva nel suo talento giornalistico. Ojetti, ex direttore del Corriere, fece il suo nome ad Aldo Borelli, il direttore in carica, che lo assunse come "redattore viaggiante" [10], con l'incarico di occuparsi di articoli di viaggi e letteratura, e con la consegna di tenersi lontano dai temi politici.
Montanelli fece l'inviato in giro per l'Europa. Nel 1939 fu in Albania, diventata quell'anno colonia italiana. Il 1° settembre 1939, mentre si trovava in Germania, conobbe sul "corridoio" di Danzica [11] Adolf Hitler, alla presenza dello scultore Arno Brecker e dell'architetto Albert Speer (che confermò poi, nel 1979, la veridicità di quell'incontro). Montanelli stesso ebbe modo di rievocare l'episodio nel libro-intervista autobiografico Il testimone.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Montanelli si spostò al fronte: oltre all'invasione della Polonia, assistette a quella della Norvegia ad opera dei tedeschi e dell'Estonia da parte dei russi. In Finlandia fu appassionato testimone del tentativo d'invasione da parte dell'URSS; nei suoi articoli trasparve una forte propensione per la causa finlandese.
Con l'entrata in guerra dell'Italia, Montanelli venne mandato in Francia e nei Balcani; poi gli fu assegnato il compito di corrispondente dalla Grecia e dall'Albania, per seguire la campagna militare italiana. Qui raccontò di aver scritto poco, per malattia ma soprattutto per onestà intellettuale: il regime gli imponeva l'obbligo di propaganda, ma sotto i suoi occhi l'esercito italiano subiva seri danni. Un suo articolo, pubblicato su Panorama del 12 settembre 1940, venne considerato "disfattista" dai censori del Minculpop, che successivamente ordinarono la chiusura del periodico.
« Rimasi su quel fronte vari mesi, senza scrivere quasi nulla, un po' perché mi ammalai di tifo e molto perché mi rifiutati di spacciare per una gloriosa campagna militare lo squasso di legnate che ci beccammo laggiù. »
( Tiziana Abate, Indro Montanelli, «Soltanto un giornalista».[12])
Finite obtorto collo le corrispondenze dal fronte, rimpatriò nel 1942 per sposarsi in seconde nozze con l'austriaca Margarethe De Colins De Tarsienne, che aveva conosciuta nel 1938.[13]
Nel 1943 visse il disfacimento dell'8 settembre e si associò a Giustizia e Libertà, il movimento partigiano. Divenne ricercato, e, scoperto dai tedeschi, fu incarcerato e condannato a morte [14] [15] [16] [17] [18] [19] [20] [21] [22].
Dall'esperienza trascorsa nella prigione di Gallarate e poi in quella di San Vittore trasse ispirazione per il racconto Il generale Della Rovere [23]. Uscì da San Vittore grazie a uno dei proprietari del Corriere della Sera, Aldo Crespi, che versò di propria tasca 500.000 lire all'ufficiale SS Theodor Saevecke, e a Luca Ostèria (un "agente doppio" noto come «dottor Ugo»), che ne organizzarono l'evasione: a suo favore, nel frattempo, c'era stata l'intercessione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster, che era stata richiesta con una lettera dalla madre Maddalena e scoperta da Montanelli solamente molti anni dopo, grazie all'aiuto di uno dei suoi lettori. Fu aiutato a fuoriuscire dall'Italia grazie alla rete clandestina O.S.C.A.R..
Gli anni cinquanta e sessanta [modifica]
L'immediato dopoguerra di Montanelli non fu facile: gli antifascisti non gli perdonavano il fatto di essere stato fascista; gli ex fascisti non avevano dimenticato il suo «8 settembre». Le porte del Corriere della Sera gli furono inizialmente sbarrate. Montanelli dovette ricominciare dal "popolare" del Corriere, La Domenica del Corriere di cui assunse la direzione nel 1945.
Solo alla fine dell'anno seguente poté tornare in Via Solferino.
Nello stesso 1946, assieme a Giovanni Ansaldo e Henry Furst, aiutò l'amico Leo Longanesi a fondare l'omonima sua casa editrice, per la quale cominciò a pubblicare fin dal 1949 (Morire in piedi). Montanelli, oltre che con Longanesi, strinse un'amicizia profonda con un altro personaggio importante nella cultura italiana dell'epoca, Dino Buzzati. Il terzo intellettuale con cui Montanelli strinse una forte e duratura amicizia fu Giuseppe Prezzolini, che stimava per l'indipendenza di pensiero.[24]
Negli anni cinquanta Montanelli accettò la richiesta di Dino Buzzati di tornare a collaborare con la Domenica del Corriere. Buzzati gli diede una pagina intera; nacque la rubrica «Montanelli pensa così», che divenne poi «La Stanza di Montanelli», uno spazio in cui il giornalista rispondeva ai lettori sui temi più caldi dell'attualità. In breve tempo diventò una delle rubriche più lette d’Italia.
Grazie al successo della rubrica, Montanelli accettò scrivere a puntate la Storia dei romani e poi la Storia dei greci. Cominciò così la carriera di storico, che fece di Montanelli il più venduto scrittore italiano[25].
Per approfondire, vedi la voce Storia d'Italia (Montanelli).
Il primo libro fu la Storia di Roma, che venne pubblicata a puntate sulla Domenica del Corriere e poi raccolto in volume per Longanesi (1957). Dal 1959 in poi la fortunata serie venne edita dalla Rizzoli Editore. La serie continuò con la Storia dei greci, per poi riprendere con la Storia d'Italia dal Medioevo ad oggi.
Quando la parlamentare socialista Lina Merlin, nel 1956 propose un disegno di legge che prevedeva l'abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia e la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui, in particolare attraverso l'abolizione delle case di tolleranza, Montanelli si batté pervicacemente contro quella che veniva già chiamata - e si sarebbe da allora chiamata - la "legge Merlin". Diede alle stampe un pamphlet intitolato Addio, Wanda!, nel quale scriveva tra l'altro:
« ... in Italia un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l'intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la più sicura garanzia... »
Nello stesso 1956 la sua attività d'inviato aveva portato Montanelli a Budapest, dove fu testimone della rivoluzione ungherese del 1956. La repressione sovietica gli ispirò la trama di un'opera teatrale, I sogni muoiono all'alba (1960), da lui portata anche al cinema l'anno successivo insieme a Mario Craveri ed Enrico Gras, con Lea Massari e Renzo Montagnani nel ruolo dei giovani protagonisti.
Nel 1961 sostenne la candidatura di Giovanni Spadolini alla direzione del Corriere. I colleghi anziani si schierarono invece per Alfio Russo, che venne nominato al posto del giornalista-storico fiorentino. Montanelli, risentito, ruppe l'amicizia con Russo.
A partire dal 1965 partecipò attivamente al dibattito sul colonialismo italiano. In accesa polemica con lo storico Angelo Del Boca, Montanelli rilanciava il mito secondo cui quello italiano fu un colonialismo mite e bonario, portato avanti grazie all'azione di un esercito cavalleresco, incapace di compiere brutalità, rispettoso del nemico e delle popolazioni indigene. Nei suoi numerosi interventi pubblici ha negato ostinatamente l'impiego sistematico di armi chimiche come iprite, fosgene e arsine da parte dell'aviazione militare italiana in Etiopia.[26]
Dichiaratamente anticomunista, "anarco-conservatore" (come amava definirsi su suggestione del grande amico Prezzolini) e controcorrente, vedeva nelle sinistre un pericolo incombente, in quanto foraggiate dall'allora superpotenza sovietica.
L'abbandono del Corriere [modifica]
Nei primi anni settanta, dopo la morte di Mario e Vittorio Crespi e la grave malattia del terzo fratello Aldo, la proprietà del "Corriere" venne gestita dalla figlia di quest'ultimo [27]. Sotto il controllo di Giulia Maria, il quotidiano operò una netta virata a sinistra. La nuova linea venne varata nel 1972, con il licenziamento del direttore Giovanni Spadolini e la sua sostituzione con Piero Ottone. Nell'ottobre 1973 Montanelli fu costretto a lasciare. All'inizio di ottobre rilasciò un'intervista al settimanale politico-culturale "Il Mondo" [28], in cui Montanelli dichiarava a Cesare Lanza:
« Non esiste un contrasto personale fra Piero Ottone e me. Siamo, anzi, in ottimi rapporti. C'è piuttosto un'impostazione del Corriere della Sera del tutto diversa da quella che è la tradizione del giornale: dissensi sull'attuale indirizzo esistono e sono stati apertamente manifestati. Un dissenso niente affatto sotterraneo, un dibattito; e può darsi che esso si concluda con la sconfitta di chi sostiene questi valori tradizionali. In questo caso, potrebbe avvenire una secessione »
(Giampaolo Pansa, Comprati e venduti, Bompiani, 1977, pag. 143.)
E concludeva lanciando un appello:
« Ci vorrebbe da parte di una certa borghesia lombarda, che si sente defraudata dal suo giornale, un gesto di coraggio, di cui però questa borghesia, capace in fondo solo di brontolare, non è capace »
(Giampaolo Pansa, op. cit., pag. 143.)
In una successiva intervista a Panorama spiegava di avere
« l'impressione, le rare volte che vado al giornale, di trovarmi in casa altrui e di non essere amato [...] C'è una nuova leva che evidentemente mi considera un'anticaglia e un intralcio, e con cui mi è impossibile stabilire un rapporto umano, come esisteva con i miei coetanei »
(Giampaolo Pansa, ''op. cit., pag. 144.)
Giulia Maria Crespi, la cui avversione al giornalista toscano era ben nota[29], non apprezzò affatto l'intervista. Il 17 ottobre Piero Ottone si recò personalmente al domicilio milanese di Montanelli per comunicargli la decisione di licenziarlo. Montanelli, però, se ne andò volontariamente, presentando le dimissioni ed accompagnandole da un polemico articolo di commiato; l'articolo non fu pubblicato. Il "Corriere" diede la notizia con un comunicato, su una colonna, il 19 ottobre.
Montanelli scrisse successivamente qualche articolo per La Stampa, ma stava già lavorando per fondare un nuovo giornale, di cui sarebbe stato il direttore. Sapeva che esisteva un pubblico pronto a farne il proprio quotidiano di riferimento (nasceva in quegli anni il termine "maggioranza silenziosa"). Lo chiamò Il Giornale Nuovo [30]. Nella sua "traversata nel deserto" dal Corriere al Giornale lo seguirono molti validi colleghi che, come lui, non condivisero il nuovo clima del Corriere, tra i quali Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Guido Piovene, Cesare Zappulli, ed intellettuali europei come Raymond Aron, Eugène Ionesco, Jean-François Revel e François Fejtő; Piero Ottone ebbe a dire che Montanelli si stava portando via "l'argenteria di famiglia".
Dieci giorni dopo l'uscita dal Corriere, Montanelli passò temporaneamente a La Stampa, dove pubblicò il suo primo pezzo il 28 ottobre [31]. Montanelli lasciò anche la sua "storica" rubrica sul settimanale Domenica del Corriere per traslocare sul concorrente Oggi [32]. Il 17 marzo preannunciò sul quotidiano torinese il suo progetto di fondare un nuovo giornale; il suo ultimo articolo su La Stampa comparve il 21 aprile 1974.
All'inizio del 1974 il progetto di fondazione del nuovo quotidiano era definitivo. Trovò un insperato sostegno finanziario nella Montedison (guidata all'epoca da Eugenio Cefis), che gli fornì 12 miliardi di lire per tre anni [33]. Montanelli ottenne di rimanere il proprietario della testata con i giornalisti cofondatori.
Nello stesso anno si sposò in terze nozze con la collega Colette Rosselli, più nota come corsivista del settimanale Gente con lo pseudonimo di «Donna Letizia» [34].
Direttore de il Giornale [modifica]
Con il Giornale (il primo numero uscì il martedì 25 giugno 1974) che sin dal principio concepì come una testata d'opinione, tra la forte ostilità della stampa di sinistra e degli ambienti della borghesia radical-chic, Montanelli ebbe l'opportunità di rappresentare, coraggiosamente, con maggiore evidenza le proprie posizioni, sempre poco conformiste e spesso originalissime; in guisa di interlocutore esterno alla politica, non schierato se non su orientamenti di massima e fautore di una destra ideale, si inserì nel dibattito politico, contribuendo alla creazione della figura dell'opinionista politico di provenienza giornalistica. Il Giornale si avvalse della collaborazione di diverse grandi figure del giornalismo italiano, fra cui Enzo Bettiza e Gianni Brera.
Dinanzi alla crescita, che egli considerò pericolosa, del Partito Comunista Italiano, restò celebre la sua sollecitazione elettorale in favore della Democrazia Cristiana:
« Turiamoci il naso e votiamo DC »
(frase originalmente detta da Gaetano Salvemini, alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, come affermato dallo stesso Montanelli)
L'attentato delle Brigate Rosse [modifica]
Il 2 giugno del 1977 Montanelli fu vittima di un attentato delle Brigate Rosse. Montanelli, mentre si stava recando, come ogni mattina, al giornale, venne ferito a Milano, all'angolo fra via Manin e piazza Cavour (ove aveva sede il Giornale nel cosiddetto Palazzo dei giornali), con una pistola 7.65 munita di silenziatore che gli sparò tutti i sette colpi di un caricatore e un ottavo già in canna, colpendolo due volte alla gamba destra, una volta di striscio alla gamba sinistra ed alla natica, dove l'unico proiettile non fuoriuscì (secondo una pratica definita col neologismo coniato in quel periodo come "gambizzazione").
L'attentatore prima di sparare, aveva chiesto di spalle a Montanelli, se fosse lui, aprendo il fuoco mentre il giornalista fermatosi stava girandosi per rispondergli. Colpito, Montanelli, non cercò di estrarre la pistola che portava con sé, ma tentò di tenersi in piedi aggrappandosi alla cancellata dei Giardini Pubblici [35], scivolando poi a terra ed urlando "Vigliacchi, vigliacchi" all'indirizzo dell'attentatore e di un suo complice in fuga; poco dopo dichiarò ad un soccorritore: "quei vigliacchi mi hanno fottuto. Li ho visti in faccia, non li conosco, ma credo di poterli riconoscere"[36].
Il "Corriere della sera" dedicò un articolo al fatto di cronaca omettendo il suo nome nel titolo ("Milano [...], gambizzato un giornalista"). Più ironico su La Repubblica fu il vignettista Giorgio Forattini, che raffigurò l'allora suo direttore Eugenio Scalfari nell'atto di puntarsi una pistola contro il piede, dopo aver letto la notizia dell'attentato a Montanelli, suggerendo che ne invidiasse la popolarità. L'"Unità" pubblicò la notizia in prima pagina, col titolo "Montanelli ferito da colpi di pistola in un attentato di <>" corredato con la fotografia del ferito soccorso dai passanti, il quotidiano comunista riportava una precisa cronaca dell'evento, evidenziava la ferma condanna del partito per un atto definito criminale nell'occhiello del titolo.
L'attentato venne rivendicato dalla colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse, con una telefonata al "Corriere d'Informazione". Secondo la rivendicazione dei terroristi, perché "schiavo delle multinazionali". Due giorni prima, con la medesima tecnica le Brigate Rosse avevano gambizzato a Genova Vittorio Bruno, vicedirettore del "Secolo XIX", mentre il giorno successivo dell'attentato a Montanelli venne gravemente ferito, a Roma, Emilio Rossi a quel tempo direttore del TG1.
Proprio in quel periodo il corsivista de L'Unità, Fortebraccio scrisse di aver dettato per la propria tomba questo epitaffio: "Qui giace Fortebraccio, che segretamente amò Indro Montanelli. Passante perdonalo, perché non ha mai cessato di vergognarsene". Montanelli, con lo spirito che lo contraddistingueva, replicò prontamente avvertendo lo stesso Fortebraccio che lui aveva iscritto fra le sue ultime volontà quella di essere seppellito accanto al collega e rivale, con questo epitaffio: "Vedi lapide accanto".
I rapporti con Silvio Berlusconi [modifica]
Nel 1977 terminò il finanziamento della Montedison. Montanelli accettò il sostegno di Silvio Berlusconi, all'epoca costruttore edile, che divenne socio di maggioranza nell'ottobre 1979.
Secondo Felice Frio, Montanelli, sottoscrivendo il contratto con Berlusconi, gli avrebbe detto: «Tu sei il proprietario, io sono il padrone almeno fino a che rimango direttore [...] Io veramente la vocazione del servitore non ce l'ho» [37].
Il loro sodalizio durò senza significativi contrasti fino al 1994. Secondo la versione raccontata da Montanelli, in seguito alla "discesa in campo" di Berlusconi, questi si presentò all'ufficio amministrativo del Giornale chiedendo a Montanelli di supportarne le iniziative politiche. Egli però decise di non seguirlo.
Da un'intervista audiovisiva rilasciata ad Alain Elkann si evince che la loro separazione fu presa di comune accordo. Nell'intervista con Elkann, Montanelli spiega meglio la dinamica della sua uscita dal Giornale. Egli, riferendosi a Berlusconi, afferma: "gli dissi: io non mi sento di seguirti in questa avventura, noi dobbiamo separarci, fu una separazione consensuale tra me e Berlusconi. Il patto su cui si reggeva la nostra convivenza, che era stato scrupolosamente osservato da entrambe le parti (ossia "Berlusconi è il proprietario del Giornale, Montanelli ne è il padrone"), era venuto meno" [38]. Montanelli ricostruisce quindi il dialogo che avvenne con Berlusconi, asserendo che non volle mettersi al suo servizio, sia perché non si era mai messo a servizio di nessuno e non riteneva opportuno cominciare con Berlusconi, sia perché riteneva che Berlusconi non potesse avere successo in politica.
Altri invece, citando lo stesso Montanelli, parlano di un aspro conflitto tra Montanelli e Berlusconi e non convengono con coloro che sostengono la tesi che l'abbandono di Montanelli fosse in comune accordo con la proprietà [39]. Tale versione viene avvalorata da quanto lo stesso Montanelli ebbe modo di confermare nel corso di numerose interviste. [40].
Il 10 gennaio di quel 1994 Montanelli in una lettera aperta a Silvio Berlusconi scrisse:
« Ho creduto di metterti in guardia da quello che mi sembra un grosso azzardo [la discesa in campo]. A questa mia franchezza hai risposto venendo in assemblea di redazione a proporre un rilancio del Giornale purché adottasse una linea politica diversa per sostanza e per forma da quella seguita da me: e con questo hai sbarrato la strada ad ogni possibile intesa. »
(Federico Orlando, Il sabato andavamo ad Arcore, Edizioni Larus, 1995, pag. 214.)
Successivamente egli attaccò duramente Berlusconi, paragonandolo a Mussolini ("ho già conosciuto un uomo della Provvidenza e mi era bastato"), considerandolo incapace di sopravvivere alla politica ("farà la fine del povero Antonio La Trippa: non riuscirà a mantenere le promesse che ha fatto agli italiani e dovrà andarsene").
Non ritenendo di poter accettare la direzione del Corriere della Sera (che non avrebbe assunto anche gli altri redattori del Giornale) offertagli da Paolo Mieli e Gianni Agnelli, decise di fondare una nuova testata insieme agli altri quaranta giornalisti dimissionari, La Voce, nome che scelse in omaggio a Giuseppe Prezzolini.
La nuova impresa tuttavia non ebbe vita lunga, non riuscendo ad ottenere nel tempo un sufficiente volume di vendite, nonostante un esordio di 400.000 copie. Come egli stesso ebbe modo di dire, La Voce si proponeva un obiettivo troppo ambizioso: nella sua idea iniziale la nuova testata doveva essere un settimanale, o un mensile, sul modello de Il Mondo di Mario Pannunzio: di conseguenza la progettazione della "terza pagina", la sezione culturale, risultò particolarmente curata; tuttavia, il numero di giornalisti alle sue dipendenze lo spinsero verso un quotidiano. Tra questi Beppe Severgnini, Marco Travaglio e Peter Gomez.
Dopo la chiusura della Voce, tornò così a lavorare per il Corriere della Sera, per curare la pagina di colloquio coi lettori, la "Stanza di Montanelli", posta in chiusura del giornale.
Ultimi anni [modifica]


Montanelli, al Teatro Nuovo di Milano, 1994, alla presentazione de La Voce.
Da molti considerato il più grande giornalista italiano, il suo lavoro fu riconosciuto e premiato anche all'estero (Premio Principe delle Asturie 1996 in Spagna, una decorazione in Finlandia, dagli Stati Uniti gli arrivò il riconoscimento annuale come miglior giornalista internazionale). È stato autorevole cronista della storia italiana ed ha intervistato personaggi come Winston Churchill, Charles de Gaulle, Luigi Einaudi, Papa Giovanni XXIII.
La sua prassi giornalistica fu influenzata dal praticantato che fece in America, tenendo presente ciò che gli aveva detto il direttore del giornale di allora, vale a dire che ogni articolo deve poter essere letto e capito da chiunque, anche dal "lattaio dell'Ohio". Divenne membro onorario dell'Accademia della Crusca, per la quale si batté, sulle pagine del Giornale, cercando di coinvolgere direttamente i suoi lettori, così che uno dei più antichi e importanti centri di studio sulla lingua italiana non scomparisse.
Nel 1991 Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, gli offrì la nomina a senatore a vita, ma Montanelli non la volle accettare, sostenendo che un giornalista dovrebbe stare a distanza di sicurezza dal potere, a garanzia della sua completa indipendenza. Ebbe a dichiarare:
« Non è stato un gesto di esibizionismo, ma un modo concreto per dire quello che penso: il giornalista deve tenere il potere a una distanza di sicurezza. »
(Il Messaggero, 10 agosto 2001)
e ancora:
« Purtroppo, il mio credo è un modello di giornalista assolutamente indipendente che mi impedisce di accettare l'incarico. »
(dalla sua lettera al Presidente Cossiga)
Negli ultimi suoi anni Montanelli si distinse per la posizione profondamente critica assunta nei confronti del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, il suo ex editore, ritenuto antidemocratico, propenso alla menzogna[41], autore di un progetto politico che, diversamente da come veniva descritto, con la destra non aveva niente a che fare. Intendeva mettere in guardia gli italiani, ricordando la pericolosità di un nuovo "uomo della provvidenza" capace di risolvere tutti i problemi, facendo notare, riferendosi a Benito Mussolini, che ne aveva già conosciuto uno in passato e che gli era bastato. Fra le sue considerazioni più note, quella fatta poco tempo prima delle elezioni politiche del maggio 2001, quando, ritenendo Berlusconi vicino alla vittoria elettorale, lo paragonò ad una malattia e disse che l'Italia ne sarebbe guarita, similmente all'azione di un vaccino, in seguito al suo esercizio del potere.
Due mesi dopo, il 22 luglio 2001, si spense a Milano nella clinica de La Madonnina (lo stesso luogo dove 29 anni prima si era spenta un'altra figura storica del Corriere, Dino Buzzati). Il giorno seguente il direttore del Corriere della Sera pubblicò in prima pagina, scritto dallo stesso Montanelli qualche giorno prima di morire, il suo necrologio:
"Mercoledì, 18 luglio 2001 - ore 1.40 del mattino. Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza - Indro Montanelli - giornalista - Fucecchio 1909, Milano 2001 - prende congedo dai suoi lettori ringraziandoli dell'affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito. Le sue cremate ceneri siano raccolte in un'urna fissata alla base, ma non murata, sopra il loculo di sua madre Maddalena nella modesta cappella di Fucecchio. Non sono gradite né cerimonie religiose, né commemorazioni civili".[42]
Migliaia di persone sfilarono nella camera ardente per rendergli omaggio.
Eugenio Scalfari lo ha definito "anarchico e guascone", più simile a Cirano che a Don Chisciotte: "Montanelli non ha mai combattuto contro i mulini a vento scambiandoli per minacciosi giganti, gli avversari che di volta in volta si sceglieva rappresentavano potenti realtà politiche o economiche, che Indro studiava con molta cura prima di muoverne all'attacco. Ne misurava la forza, ne coglieva il punto debole e lì sferrava il colpo".
Enzo Biagi ricordava il suo legame con il lettore: "Era il suo vero padrone. E quando vedeva lo strapotere di certi personaggi, si è sempre battuto cercando di rappresentare la voce di quelli che non potevano parlare".
Il Comune di Milano ha intitolato al grande giornalista i Giardini pubblici di Porta Venezia, divenuti «Giardini Pubblici Indro Montanelli». All'interno del parco è stata posta una statua raffigurante Montanelli, intento nella stesura di un articolo con la celebre Lettera 22 sulle ginocchia.
 
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Eugenio Enea
view post Posted on 1/9/2009, 18:05




Vabbè un grande ha sempre seguito le sue idee fino alla fine e non si è MAI fatto mettere le mani sopra da personaggi di poco conto che in un topic così non meritano manco di essere citati per le loro basseze.
 
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Rostislav666
view post Posted on 1/9/2009, 19:49




Hai detto tutto, non c'è bisogno d'altro
 
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2 replies since 1/9/2009, 16:44   99 views
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